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Platone: La visione politica e il problema educativo

 Platone

La Repubblica

La visione politica e quella etica di Platone sono complementari: il modello di giustizia che
presiede nella vita morale dell'individuo è lo stesso che regola la vita ordinata dello Stato, in quanto quest'ultimo non è altro che lo specchio dell'uomo e della sua anima. Nella prospettiva platonica non c'è scissione tra vita privata e vita sociale, tra etica e politica, poiché non è possibile immaginare l'uomo come un individuo slegato dalla comunità di appartenenza. Platone ha individuato come le quattro virtù fondamentali dell'individuo sono anche le virtù che egli attribuisce alle diverse classi sociali che compongono lo Stato. Un ruolo particolarmente importante riveste la giustizia nell'opera Repubblica.

La Repubblica è un dialogo in dieci libri composto tra il 380 e il 370 a.C. Platone è convinto che l'uomo si realizzi pienamente soltanto come cittadino, cioè membro della propria città. 
Elaborò un modello di Stato perfetto, in cui ogni componente sia in armonia con le altre e in cui siano assicurate le virtù e la felicità dei cittadini. Si tratta di uno Stato utopico, cioè che non è mai esistito, ma che può servire come punto (criterio o paradigma) di riferimento per cittadini e politici. La sua validità non dipende dalla sua effettiva realizzabilità, ma dal fatto che offre un esempio di come sarebbe possibile presiedere alla vita della città.

Il modello dello Stato ideale

Uno Stato è ben organizzato se riesce a provvedere ai vari bisogni dei suoi membri, attraverso specifiche e differenziate funzioni sociali. Esso è strutturato in tre classi:
- la classe dei governanti
- la classe dei guerrieri
- la classe dei lavoratori

Ogni classe deve uniformare il proprio comportamento a una specifica virtù per il bene della città: i governanti, su cui grava il compito di provvedere alla cura di tutti i cittadini, devono essere dotati della virtù della saggezza, in modo che siano capaci di adempiere la loro delicata funzione; i guerrieri devono avere la virtù del coraggio, che li fa essere audaci e sprezzanti del pericolo in caso di guerra contro i nemici della città; i lavoratori manuali devono possedere la virtù della temperanza, grazie alla quale si sottomettono e si armonizzano alle classi superiori, tenendo a freno gli istinti e accettando il proprio ruolo.
Quest'ultima virtù è assolutamente indispensabile per gli uomini di tutte le classi sociali, comprese quelle dei governanti e dei guerrieri, in quanto è la virtù civica per eccellenza, necessaria per raggiungere l'accordo su chi debba comandare e prendere decisioni.

La giustizia è la virtù (capacità) di adempiere bene il proprio compito di cittadino. La giustizia consiste nello svolgere il proprio ruolo con scrupolo e onestà senza superare i limiti della funzione cui si è preposti. Si realizza la giustizia quando le classi sociali, analogamente alle tre parti dell'anima (razionale, irascibile, concupiscibile), svolgono il proprio dovere, cioè la funzione loro assegnata dalla natura.

L'aristocrazia

Lo Stato che Platone delinea è un regime "aristocratico", in cui il governo della città deve essere affidato ai "migliori" (dal greco áristoi), cioè a coloro che sono dotati per natura della capacità di guidare gli altri uomini. Il suo modello aristocratico è improntata al valore assoluto, alla conoscenza, alla dedizione al bene comune e si basa su quello di un'aristocrazia dello spirito e della ragione.
Ritiene che il governo debba essere affidato ai migliori, che per lui sono i filosofi: essi conoscono il Bene e sanno distinguere il vero e il falso. Il filosofo ha il dovere morale di sacrificarsi per il bene della comunità, dal momento che ha raggiunto la vetta del sapere.

I regimi corrotti

I governi esistenti possono essere di quattro tipi di regimi politici:
- la timocrazia
- l'oligarchia
- la democrazia
- la tirannide

La timocrazia è il governo degli uomini che pongono al vertice della considerazione l'onore (in greco timé), non la sapienza. Si tratta di uomini ambiziosi, che amano il potere in quanto dà loro fama e gloria.

L'oligarchia ("governo di pochi", dal greco óligoi, "pochi") è il regime fondato sul censo, in cui solo chi è ricco ha potere e i poveri non hanno diritto ad accedere ai posti di comando. In questo Stato dominando persone avide e bramose di denaro, che pongono al di sopra di tutto i beni materiali e le ricchezze. Esso produce al suo interno l'ostilità delle classi, che finirà per distruggerlo.

Lo Stato democratico, in cui la grande massa dei poveri prevale sui ricchi e si impadronisce del potere. Prevalgono l'individualismo, l'anarchia e la sfrenata libertà. L'anima dell'uomo democratico è volubile e priva di equilibrio.

L'ultima forma di governo, la peggiore, "l'ultima malattia per uno Stato", che è la tirannide. Essa è la forma più spregevole di governo, in quanto il tiranno, una volta preso il potere con la forza, è costretto a liberarsi di ogni persona saggia e intelligente, per circondarsi di gente sempre più vile, che lo assecondi e lusinghi. L'uomo tiranno viene descritto da Platone come colui che si abbandona alle passioni più disordinate e ai più orrendi misfatti, dal furto alla violazione dei templi, alla riduzione in schiavitù e all'uccisione degli uomini giusti.

Percorso educativo dei filosofi

Il progetto educativo che Platone elabora per il filosofo mira alla ricerca della Verità e l'aspirazione al Bene: l'uomo di Stato deve possedere la scienza vera, che si consegue attraverso la ricerca razionale. Su queste basi Platone costruisce un curricolo di studi.

Tutti i bambini, maschi e femmine, devono essere allevati e educati in comune dallo Stato, fino all'età di diciotto anni. L'educazione elementare, che inizia a sette anni, si fonda sulla ginnastica, sulla musica e soprattutto sulla matematica, che deve essere studiata da tutti. Essa serviva per "svegliare" lo spirito e stimolare le capacità di astrazione, di memoria e di penetrazione logica. 
Platone riserva alla matematica un ruolo decisivo nella preparazione dei filosofi, perché, come egli scrive nel VII libro della Repubblica, essa è lo strumento principale della "conversione dell'anima" la quale, staccandosi dalla sensibilità, si eleva alla luce delle idee. Essa à la scienza propedeutica alla filosofia.
All'età di diciotto anni, il giovane viene avviato al servizio militare e dopo due anni si accosta allo studio delle scienze. A trent'anni, dopo un'ulteriore selezione, i giovani migliori possono studiare la filosofia e in particolare il metodo dialettico. Dai trentacinque ai cinquant'anni i filosofi partecipano attivamente alla vita politica, affiancando i magistrati che occupano incarichi pubblici per formarsi un'esperienza pratica di governo. A cinquant'anni coloro che avranno superato tutte le prove della selezione potranno accedere al governo della città.

Per impedire che subiscano la tendenza dell'egoismo, Platone non concede loro né di avere una famiglia né di possedere una proprietà privata; addirittura ritiene che si debba evitare che essi instaurino un legame affettivo esclusivo con i figli e con le mogli: i primi verranno cresciuti in comune, le seconde saranno condivise.

Il mito della caverna

Platone nel VII libro della Repubblica espone il celebre mito della caverna. Secondo questo mito, gli esseri umani sono come prigionieri incatenati fin dalla nascita in una caverna e costretti a guardare verso la luce, con un fuoco che brucia a una certa distanza. Tra il fuoco e i prigionieri c'è un muricciolo, sottile e basso. Dietro di esso passano delle persone che portano statue, figure animali, vasi e altri oggetti fabbricati in legno o in pietra, facendoli sporgere sopra il muretto. I prigionieri vedono solo le ombre di tali oggetti proiettate sul fondo della caverna.

Poniamo che uno di essi, liberato dalle catene, si alzasse e iniziasse a camminare volgendo gli occhi verso la luce. In un primo momento sarebbe ancora portato a ritenere che la vera realtà siano le ombre. Se poi fosse spinto all'uscita della caverna, nel mondo reale, soffrirebbe per la luce abbagliante del sole proverebbe un forte dolore agli occhi.
L'unico rimedio sarebbe quello di adattarsi gradualmente alla nuova visione: dopo le ombre, egli dovrebbe guardare le immagini delle cose riflesse nell'acqua e poi le cose stesse. Successivamente, quando i suoi occhi si fossero abituati meglio alla luce, potrebbe guardare la luce degli astri, la luna e il cielo di notte. Soltanto alla fine, dopo un adeguato tirocinio, potrebbe provare a guardare il sole.
Una volta che si fosse adattato a sostenere la luce del sole, avrebbe difficoltà a ritornare nell'oscurità, presso gli uomini incatenati, e preferirebbe patire qualsiasi sofferenza anziché vivere quella miserabile vita.
Tornato nella caverna, i suoi occhi si troverebbero a essere come ciechi, tanto da non riuscire più a scorgere neppure le ombre di un tempo e da suscitare il disprezzo degli altri, che lo accuserebbero di esser tornato con gli "occhi guasti" e riderebbero di lui.
La coscienza del prigioniero liberato dalle catene lo spinge a ridiscendere nella caverna per salvare i suoi compagni dall'ignoranza e farli partecipi delle verità che ha potuto contemplare. 
Quando egli dirà loro che si sbagliano nel giudicare le ombre come realtà, subirà lo scherno e l'incomprensione di tutti i prigionieri.

Il mito è allegoria della formazione del filosofo e del destino a lui riservato nella società corrotta. La caverna rappresenta il nostro mondo sensibile, in cui gli uomini sono come prigionieri e schiavi dell'ignoranza, che li incatena alla conoscenza delle immagini delle cose (le ombre delle statue). Nel prigioniero che si libera dalle catene non è difficile scorgere l'inizio del faticoso itinerario educativo del filosofo, che gradualmente raggiunge la conoscenza vera, passando prima attraverso le sensazioni e le apparenze (gli oggetti riflessi nell'acqua), poi attraverso lo studio della matematica e della proporzione (gli astri e le stelle) e arrivando, infine, alla conoscenza delle idee stesse, come il Bello, il Giusto e il Bene (il sole).
Il filosofo (lo schiavo liberato) fa ritorno tra gli uomini (i compagni di prigionia) per annunciare la verità e assumersi il diritto-dovere di governare la città, prendendosi cura del bene comune.

Uno degli insegnamenti di questo mito è che la filosofia non deve estraniarsi dalla vita civile e politica; essa ha il dovere di "prendersi cura" dell'uomo  di lottare per il trionfo della giustizia nella società, anche a costo di essere fraintesa e derisa.

L'arte

nel curricolo dei futuri reggitori dello Stato non è contemplata l'arte, che Platone, nel II e III libro della Repubblica, giudica severamente. 
In greco si definiva musiké, cioè l'insieme delle arti che si consideravano "protette" dalle Muse (le figlie di Zeus). Platone reputa necessaria la presenza di tali arti nel curricolo formativo del giovane; la poesia e l'epica possono affinare lo spirito e stimolare all'amore per le virtù eroiche e per i valori della propria città.

In generale il suo giudizio sull'arte è negativo: l'arte esercita il suo fascino sulla parte irrazionale, incanta l'animo, lo confonde, lo esalta, lo attrae, ma proprio per questo grande potere che le compete può essere fonte di male ed errore. Le arti tendono a lusingare con immagini frivole e false le coscienze dei giovani.

In accordo con la tradizione greca, anche Platone parte dall'assunto fondamentale che l'arte sia imitazione o mimèsi: l'artista imita la realtà sensibile, che a sua volta è immagine del modello ideale. L'arte è "imitazione di imitazione", "di tre gradi lontano dal vero", copia sbiadita e spesso deforme della realtà.

L'arte risulta controproducente nella formazione dei governanti, in quanto rappresenta una dimensione di "sogno", di immagini fallaci, di conoscenze fugaci e ingannevoli che possono confondere e distrarre tanto più quanto è il loro fascino.

L'arte è, quindi, diseducativa per un duplice motivo: propone in molti casi modelli non eticamente positivi e allontana dal vero che risiede nel mondo ideale.
Vi è un terzo motivo che induce Platone a guardare con sospetto alle arti e che risale alla cultura pre-platonica e allo stesso Omero. Nel mondo greco arcaico era diffusa l'idea che il poeta fosse ispirato dagli dei nella composizione dei propri canti. Tale ispirazione equivaleva a una sorta di "divina pazzia" che, invadendo e conquistando l'anima dell'artista, vi infondeva uno stato di enthusiasmós (o "furore divino"), in grado di confondere e offuscare la ragion e al pari dell'ubriachezza o del delirio d'amore.

Nello Ione Platone sostiene apertamente che i poeti sono ispirati e posseduti dal dio nella composizione dei loro poemi e li paragona alle baccanti, le seguaci del dio Bacco che nei loro riti si abbandonavano a danze sfrenate, al canto e dall'ebrezza provocata dal vino, raggiungendo uno stato di estasi.
Platone parla esplicitamente della funzione "ermeneutica" dei poeti, nel senso che essi hanno il compito di manifestare agli uomini il pensiero divino facendosene interpreti.

La supremazia della ragione

La polemica platonica sull'arte si può sintetizzare nei seguenti punti:
1. l'arte è diseducativa perché propone modelli di comportamento immorali, immagini frivole e ingannatrici;
2. l'arte allontana dal vero perché è "imitazione di imitazione", trattiene l'uomo al più basso grado di conoscenza, l'immaginazione, e dunque induce all'errore;
3. l'arte, e in particolare la poesia, è frutto della divina ispirazione, che avvince l'animo dell'artista e attenua la sua capacità di giudizio: sia l'autore sia il fruitore dell'opera sono dominati dall'irrazionalità e soggiogati dalle passioni e dalle emozioni.
In tutti questi aspetti emerge sempre la volontà di affermare la superiorità della ragione rispetto alla poesia e a ogni altra forma di interpretazione della realtà.

Nella condanna dell'arte si può cogliere pertanto la polemica di Platone contro la vecchia concezione dell'educazione, incentrata essenzialmente sulla poesia e sulla mitologia, a cui va sostituito un percorso educativo che si fondi sul metodo dimostrativo e dialettico della filosofia.
Ma Platone, nei suoi giudizi, si colloca dal punto di vista dell'educatore e del legislatore, che deve costruire un curricolo scolastico e si preoccupa del potere destabilizzante della dimensione artistica: egli giudica negativamente l'arte in nome dei valori della ragione filosofica, ed è per questo che non ne contempla l'inserimento nel curricolo formativo dei giovani.

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